Roberto Carcangiu, stimato chef, R&D Cooking Director e presidente dell’Associazione Professionale Cuochi Italiani nonché co-fondatore di Meno22percento, ha accettato di parlare del progetto che sta alla base di uno dei portali di E-commerce dedicati al cibo naturale più ambiziosi del panorama italiano. Meno22percento è una realtà emergente che, a differenza di altri portali specificamente orientati alla semplice esaltazione del prodotto, mira innanzitutto a proporre una rivalorizzazione dell’individuo, a ridare un volto umano ai produttori: solamente mediante la riscoperta del sé infatti, della propria intimità, del proprio background culturale, è poi possibile dare la giusta collocazione ad ogni ingrediente; qualificandolo pertanto non solo come “prodotto”, ma come frutto del lavoro di una persona e delle qualità di uno specifico territorio.
La mission di Meno22percento è infatti basata su un concetto molto semplice: restituire ad ogni alimento le sue origini, così da poterlo comprendere ed apprezzare nella sua unicità, e rimettere l’essere umano al centro di questo meccanismo di godimento del cibo; cibo che non rappresenta solamente l’atto della mera nutrizione, ma è anche piacere, socialità, vita. Perché come sottolineato dallo stesso Carcangiu: “Il cibo è frutto del lavoro dell’uomo“, della mediazione tra l’essere umano e la natura di cui esso si nutre. Ed escludere l’uomo stesso da questa equazione, sarebbe un atto paradossale e “folle“.
Buongiorno Roberto. Una delle idee più innovative da te elaborate è quella della cucina del buon Senso, o alta cucina democratica, finalizzata all’offrire un’esperienza culinaria di alta qualità a quante più persone possibili. Ti va di ampliare il concetto in poche parole?
“La cucina non può essere dogma, viviamo in un’epoca in cui si pensa che la qualità debba essere cosa per pochi eletti, ma non può e non dev’essere così. Il cibo è l’uomo, sono realtà interconnesse. Parlando nello specifico di quello che viene definito buon cibo, il concetto stesso di qualità mi piace poco, non è altro che un prerequisito deciso in maniera arbitraria da una ristretta cerchia di persone. La cucina viceversa determina mediazione, il cuoco è come un traduttore, deve trovare la chiave di lettura per far passare un messaggio chiaro: non si possono ignorare le esigenze del cliente. Il lavoro dello chef è quello di acquisire nozioni tecniche per poter soddisfare al meglio la richiesta. Lo chef è come un sarto, il suo compito è quello di confezionare l’abito perfetto per ogni cliente. Perché lo stesso abito non può andare bene per tutti, ogni persona ha le sue forme, le sue esigenze. E questo vale anche per i sapori”.
La cucina del buon Senso, sul piano concettuale, può essere per uno chef un po’ ciò che il rasoio di Occam è per un ricercatore? Uno strumento utile ad esaltare la vera essenza, l’unicità intrinseca di ogni singolo ingrediente?
“Certo è così, perché dobbiamo acquisire la piena consapevolezza dei materiali con cui lavoriamo e di ciò che facciamo, possiamo fare una riflessione sul vino ad esempio: io dico, qual è il concetto per cui questo vino oggi è eccezionale, mentre tra 10 anni potrà venire definito scadente? Qual è il concetto per cui i ricchi mangiano branzino e i poveri baccalà, ma quando il baccalà diventa di moda allora tutto si rovescia e succede il contrario? E’ il desiderio di esclusività a rendere il cibo speciale, non è lui in quanto tale”.
Dalle tue parole traspare la voglia di rimettere al centro di tutto la singolarità, di esaltare quel senso di appartenenza inevitabilmente mortificato dalla grande distribuzione organizzata. Possiamo dire che la chiave di volta dell’alta cucina democratica sia la riscoperta dell’identità?
“Assolutamente sì, è l’anarchia, quella che io chiamo anarchia ‘anarchia gastronomica’. La ricetta non è un atto creativo fine a sé stesso, ma la risoluzione di una serie di costanti e problematiche legate ad un luogo preciso come un territorio, alla tipologia di cucina d’appartenenza. E’ tutto imprescindibilmente legato al contesto, a come l’essere umano l’ha osservato, esperito ed interiorizzato. E’ questo il valore, la forza dell’uomo. Perché una pietanza qui è una prelibatezza, mentre magari a distanza di 50 chilometri viene considerata un pessimo piatto? Perché il gusto è oggettivo e misurabile, mentre il sapore no: quello è una proiezione mentale. E varia da persona a persona”.
Possiamo dire che, in un universo dominato dalla ricerca estremizzata della sofisticatezza, nel quale l’impulso a proiettare il proprio ego può rischiare di inficiare la qualità del prodotto stesso, la cucina del buon senso possa essere in qualche modo un antidoto contro l’opulenza standardizzata?
“Sì, in realtà il concetto è il seguente: se ammettiamo che in questo momento gli esperti identifichino quello che a loro giudizio è il miglior panettone del mondo, che tutti quindi prendano la sua tecnica, diventando di fatto suoi cloni, allora si sta solo creando un ‘McDonald di livello’. Non può essere questa la soluzione. La cucina dev’essere la sorpresa che ti fa tua moglie con un taglio di capelli diverso, in fondo perché scegli lei e non un’altra donna? Standardizzando tutto si perde inevitabilmente l’originalità, la possibilità di provare cose nuove. Così si uccide l’emozione. In questo modo oltretutto, uniformando ogni cosa sul modello di un unico punto di riferimento, non consentiamo alle nuove generazioni di sperimentare novità, creiamo vecchi giovani. Non è questa la strada da intraprendere”.
Perché è stato fondato Meno22percento, quali sono la genesi del progetto ed il suo obiettivo principale?
“Renato (Renato Baresi, uno dei soci fondatori di Meno22percento, ndr) si presentò alla mia porta, mi disse che voleva creare un’azienda, un portale di vendita di prodotti alimentari. Così espressi le mie condizioni: sarei entrato nel progetto, ma solamente se fosse stato incentrato sulle persone, su un’idea etica prima che sul prodotto stesso, sul semplice concetto di vendita. Perché in fondo tutti parlano di cucina ma pochi la conoscono, non basta conoscere una ricetta per fare uno chef. Bisogna conoscere l’etimo della parola. Dissi che avrei partecipato solo se fosse stato qualcosa di autosostenibile: credo che da sempre in natura quando qualcosa ha davvero un senso etico e serve, nel senso più pieno della cosa, allora questa cosa può continuare ad esistere anche senza i suoi creatori. Se la nostra azienda ha bisogno di noi ventiquattr’ore al giorno significa che nasce malata, io voglio che mio figlio un giorno si faccia la sua vita. Volevamo creare qualcosa che potesse autosostenersi, che fosse in grado di generare benessere per tutti, non solo per una o poche persone.”
Si parla dunque di una sorta di rivoluzione democratica del cibo, di un progetto del quale tutti possano essere beneficiari, non solamente di una ‘vacca da mungere’ come si suol dire.
“Esatto. Un’altra cosa è dire che deve diventare forte commercialmente per poter determinare una serie di aiuti ai piccoli produttori. Ad esempio, che pomodori producevate quella zona? Perché non li produci di là? Perché non ci guadagni. E allora tu stesso aiuti la natura a non massificare, ad avere più diversità. Se è vero che il denaro è lo strumento che questa società identifica come mezzo di sostentamento ok, questo non lo rifiutiamo. Ma al contempo dobbiamo creare un meccanismo, con azioni etiche, che consenta a tutti di guadagnare. Meno22percento è nato con questo obiettivo: vogliamo che tutti ci guadagnino”.
Quindi ciò significa anche ridare dignità e valore ai produttori, la cui figura è stata banalizzata dai meccanismi asettici ed impersonali della GDO.
“E’ chiaro, il concetto dell’essere umano altrimenti qual è? Le persone parlano di qualità, di condivisione, di tante belle parole, ma alla fine del processo quello che si fa in quattro per portare il cibo sulle tavole, che sia il contadino, l’agricoltore, il pastore, muore di fame. Questa è follia. Nessuno si preoccupa dell’essere umano dietro alla figura professionale, e questo è paradossale. Siamo abituati a valutare solo ciò che ci interessa a livello pratico, in questo caso accedere al cibo. Faccio un esempio: è molto più facile valutare una donna per la sua avvenenza piuttosto che parlarci per capirla, comprendere cos’ha in testa, conoscere che persona sia. Ma così facendo, parlando soltanto del prodotto di tendenza, alla fine crei un dogma, e si compra quello, non il prodotto. Quello che vogliamo è rimettere l’uomo, e non il brand, al centro di tutto. Questo è il nostro obiettivo”.
Ricordiamo in ultima che, a partire da settembre, Roberto Carcangiu sarà disponibile a rispondere ai quesiti più interessanti proposti dalla community mediante una rubrica di videorisposte, cosicché chiunque lo desideri possa sentirsi pienamente parte attiva del progetto di Meno22percento.